L’avenir est la ville poreuse

© L’Espresso, Enrico Arosio

« E mi raccomando: subito al lavoro! ». All’Eliseo, il 4 giugno, Nicolas Sarkozy è stato chiaro con i dieci finalisti della Grande Sfida. Primo: consegna dei progetti a gennaio 2009, perché il mandato presidenziale dura quattro anni e si aspetta le prime ricadute entro quel termine. Secondo: gli architetti non parlino di governance, di architettura istituzionale, ma partano da idee di progetto. Terzo: l’architettura è un’arte popolare, deve parlare al popolo senza la mediazione delle élites.

Ad ascoltarlo, lacerati tra esprit républicain e afflato populista, c’erano anche gli urbanisti Bernardo Secchi e Paola Viganò, colleghi di studio a Milano e di università all’Istituto di architettura di Venezia, unici italiani su quattro stranieri, oltre ai sei francesi.

« Lucidità, volontà, ambizione », così Secchi descrive il presidente dal vivo: « Quando un consigliere ha proposto di lasciare la parola agli architetti, Sarkozy ha risposto che non era necessario. Ciò che ci aveva detto era il suo contributo alla nuova architettura: io non disegno, ma so quello che voglio ». Un progetto strategico, anzi due: per la città del XXI secolo dopo Kyoto, e per l’area metropolitana parigina.

Secchi non si è turbato: la sua è una lunga carriera iniziata da allievo di Giovanni Muzio al Politecnico di Milano, proseguita a Venezia tra personalità quali Manfredo Tafuri, Massimo Cacciari, Vittorio Gregotti. Ha studiato trasversalmente, la polis greca e la Repubblica di Weimar, gli strutturalisti e il Foucault del Collège de France. È stato autore di tanti piani urbanistici (Madrid, Val d’Aosta, Siena, Bergamo, Ginevra, Anversa…), professore a Zurigo, Parigi, Rennes. Parla un francese rimarchevole, vanta una rete di relazioni europea. Con Paola Viganò, più giovane di una generazione, guida una équipe originale, diversa dagli squadroni messi in campo dalle archistar come Nouvel o Richard Rogers.

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Una équipe che comprende gli urbanisti dello Iuav, il gruppo di Gerhard Hausladen della Technische Universität di Monaco, lo studio franco-tedesco Ptv (traffico e mobilità), i matematici del Mox, Politecnico di Milano, Alan Berger della scuola di landscaping del Mit di Cambridge. « Non ci sono solo le archistar adorate dai giornali », chiosa Secchi con occhio ironico, sopra quel naso notevole che ricorda lo storico Eric Hobsbawm. Incontrati nelle aule calde dello Iuav, in maniche di camicia e scarpe Clarks, i due evocano la sfida di Davide a Golia. In realtà affrontano un tema gigantesco senza complessi. Viganò: « I francesi sentono che Parigi non è più la capitale del secolo, che ha perso terreno. Non solo nella storica rivalità con Londra, ma con le megalopoli asiatiche, a cominciare da Shanghai ».

Il lavoro è agli inizi, e i due ragionano di metodo, più che di architettura: « Dobbiamo identificare la megalopoli sia a livello analitico, di dati e cifre, sia di immagini mentali. La città storica, turistica, è quella che funziona meglio, quindi non sarà al centro dell’indagine ». Annunciano una metafora-guida: la ville poreuse, la città porosa. Vi si legge un’eco della ville radieuse di Le Corbusier, il manifesto urbanistico elaborato intorno al 1930.

Ma che cosa significa porosità, nella megacity del XXI secolo? « Lavorare sulla porosità », spiegano i due, « vuol dire contrastare la tendenza alla separazione economica e sociale. Una città-spugna è più permeabile della Parigi di oggi, divisa in aree di ricchi e di poveri, separate per reddito, etnia, religione. Porosità in senso anche fisico, attraverso il verde, l’energia, le acque, le reti di trasporto: oggi i trasporti pubblici neppure ci entrano dentro le banlieues ghettizzate ».

Parole radicate nella cultura urbanistica del movimento moderno, nel welfare novecentesco, ma che incrociano la sociologia antimondialista alla Pierre Bourdieu, gli studi di Saskia Sassen sulle città globali, la critica al neoliberismo. Lo studio Secchi-Viganò ha operato a lungo ad Anversa, che aveva visto il centro urbano abbandonato dai ceti medi fiamminghi per le zone residenziali esterne, e occupato dagli immigrati, nordafricani, poi esteuropei.

Conoscere Anversa per capire Parigi: le sue periferie violente, i ‘quartiers sensibles’ disposti intorno all’anello del Périphérique, barriera dura tra inclusi ed esclusi. La Grande Parigi è un territorio di 9 milioni di abitanti, 1.260 comuni solo nell’Ile-de-France, c’è chi parla di una megalopoli unica sino a Le Havre. « Affrontiamo un paesaggio amorfo », spiega Secchi, « con aree inquinate lungo le linee ferroviarie, zone ex industriali da ridefinire, una crescita di nuove attività lungo il Périphérique, improvvisi addensamenti terziari, il parco di Eurodisney. E i quartieri residenziali protetti, le cosiddette gated communities ».

Le mappe cittadine sono ancora impostate sul concetto ‘Paris et sa banlieue’. Dentro e fuori. Come infrangere questa logica? « È presto per rispondere. Va valorizzato il sistema delle acque, dei tre fiumi Senna, Marna e Bièvre. dovremo identificare la ‘nuova Silicon Valley’ indicata da Sarkozy nel Plateau du Saclay, a sud-ovest. C’è la richiesta di due o tre ‘nouvelles villes’. C’è la qualità del verde, aree forestali, agricole, persino giardini storici ancora integri, nella logica della sostenibilità ».

Compito arduo. Non esiste più la Parigi di Coco Chanel. Oggi nelle enclaves etniche si concentra, come scrive Bourdieu, « la misère du monde ». Altrove incombono i rifugi dei ricchi, i « ghetti di Gotha », secondo il sociologo Michel Pinçon. Dubbio finale: non sarà tutto un po’ di sinistra per un governo di destra?

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